Continua, dopo la chiusura dell’ospedale e la trasformazione del Pronto Soccorso in PPI (punto di primo intervento), il travagliato calvario per gli utenti della sanità dell’Alto Jonio costretti a lunghe e mortificanti peregrinazioni in cerca di un posto-letto che non si trova mai, o che si trova a lunga distanza dai paesi del comprensorio, tale perciò da non garantire la necessaria assistenza nei casi di emergenza-urgenza. E’ successo anche l’altro giorno ad una signora anziana di Trebisacce ma è purtroppo storia quotidiana, che ormai si ripete troppo spesso: la gente comune, specie quella dei paesi interni, che non sa, o che non si rassegna all’idea che l’ospedale non è più ospedale, continua a recarsi infatti al Pronto Soccorso dove i medici, che sono obbligati a fare i medici e che quindi non chiudono la porta in faccia a nessuno, si prodigano come possono, arrivando fin dove possono arrivare, ma troppo spesso si trovano nella condizione di chi, isolato e senza mezzi, deve difendersi con le mani nude da chi invece ti punta una pistola alla tempia.
I fatti: G.E., un’anziana signora, originaria della Liguria ma da molti anni cittadina adottiva di Trebisacce dove peraltro si è battuta per tutta la vita in difesa dell’ospedale, ha dovuto sperimentare sulla propria pelle l’odissea vissuta da tanti altri pazienti da quando il “Chidichimo”, e soprattutto un servizio salva-vita come l’Utic, è stato chiuso. Colta da improvviso malore, i figli l’hanno accompagnata all’ormai ex Ospedale. «Qui, – è il figlio M. V. che parla – i sanitari, che non finirò mai di ringraziare, si sono prodigati in tutti i modi e, attraverso le opportune indagini condotte con i mezzi a disposizione, hanno subito diagnosticato problemi di carattere cardiaco e le hanno prestato le cure del caso, in seguito alle quali si è reso necessario il trasferimento presso un ospedale attrezzato. A questo punto – sempre secondo il figlio della signora – sono iniziate le spasmodiche ricerche di un posto-letto partendo dall’ospedale più vicino: niente però a Corigliano, niente a Rossano, niente a Castrovillari, niente a Rossano… niente ad Acri. A questo punto, – è sempre il figlio che parla – per ridurre al massimo i tempi ed i rischi di un aggravamento della situazione, assumendomi la responsabilità e firmando la dovuta liberatoria, l’ho accompagnata con la mia auto a Catanzaro, dove mia madre, per fortuna, è tuttora ricoverata. Mi limito a raccontare i fatti, senza aggiungere alcuna considerazione. Lascio a voi – ha concluso il figlio dell’anziana signora intendendo riferirsi ai rappresentanti istituzionali ed anche ai vertici dell’Asp – commentare l’accaduto e tirare le opportune conclusioni, augurandovi che la cosa non capiti a uno di voi».
Pino La Rocca