Redazione Paese24.it

Una visita a Roseto Capo Spulico tra vinelle e pammedìe

Una visita a Roseto Capo Spulico tra vinelle e pammedìe
Diminuisci Risoluzione Aumenta Risoluzione Dimensioni testo Stampa
Print Friendly, PDF & Email

Quelli che transitano per la costa jonica da a Taranto a Reggio e viceversa, sia in auto che in treno, toccano da vicino uno dei vecchi castelli della Calabria: l’imponente maniero di Roseto Capo Spulico; è bellissimo non solo d’estate. E’ passaggio obbligato per arrivare in Sicilia. Qui, si sono fermati personaggi famosi: l’eremita San Vito, che estese le sue propaggini religiose fino alla Lucania; l’imperatore  Federico II, col suo stuolo di falchi; il cardinale Fabrizio Ruffo che fece la marcia della Santa fede, l’abate di Saint e tanti altri viaggiatori stranieri. Il folklore di Roseto inizia proprio dal castello che cade a picco sul mare; il poeta e scrittore Dante Maffia, che ha varcato i più vasti confini della letteratura italiana, ma resta sempre il più noto personaggio di questo paese, ci parla anche delle pammedìe: l’Isola di Monte Sardo, il leone chiuso nel palazzo Mazzario. Nel cuore di Maffia resta anche il dialetto di sua madre. Invece, l’altro poeta locale, Rocco Franco, ci fa riscoprire la parlata dei contadini, piegati nelle “carmàte” del grano appena mietuto. In una masseria di questo castello il barone don Pietro Mazzario avrebbe offeso il suo mulattiere e il forèse Giovanni Labanca, i quali datisi al brigantaggio, lo fecero sequestrare dalla banda di Antonio Franco. Se volete conoscere qualcosa della storia di Roseto, leggete il libro di Salvatore Lizzano: prima si chiamava Pietra Roseto, dal 1491 all’800, passò sotto i feudi dei Carafa,  Serra, Guaragna, Lanzino Ulloa, i Ferrari di Cosenza e i Mazzario. Nel 1799 fece parte del cantone di Tursi, e nel 1811 fu aggregato al Circondario di Amendolara.

Se non ci fosse il pericolo frane, è incantevole non solo il castello federiciano ma anche l’abitato che sorge sul monte sovrastante. E’ sempre il Padula a restarne meravigliato: «Siamo tra le carrube; da Roseto in poi le case sono belle, sono ad un piano, parte di calce e parte di creta. Il lido scoglioso è di buono approdo»; infatti, si dice che vi si imbarcavano, di notte, i primi emigranti clandestini  dei nostri paesi. Le Memorie di Francesco Stigliano ci forniscono altre tradizioni di Roseto, come «il gelataio dal collo taurino, che portava sempre il basco». Qui, è recentemente scomparso un altro poeta che dicevano rimanesse “sconosciuto”: Nicola Trebisacce, i cui epigrammi prendono in giro, uomini e cose di Roseto. Nel centro storico sono famose le vinelle, i vicoli stretti e ormai anneriti dal tempo; sulla piazzetta in cima al paese c’è la statua di Santo Tòtaro. Entriamo nella  chiesa madre, dedicata a S.Nicola di Mira, e due anziane che tengono ancora la corona del rosario in mano, ci dicono che  «il protettore del paese è San Nicola di Bari, ma il santo più amato è il nostro S.Rocco». Anche a Roseto i nomi più diffusi si richiamano ai santi: Rocco e Nicola; in tutti i nostri paesi del Sud, la gente si sente garantita dai santi avvocati.

(Le foto sono di Pasquale Lamitella)

Una ragazza elogia i cibi locali, ma una volta si faceva vanto dei fichi «che erano assai», delle mandorle e anche delle carrube e dei capperi, come in Amendolara, Albidona, Cerchiara. Oggi a Roseto cercano di farsi spazio le ciliegie. Padula parla dei pirastri, degli ulivi che «sono moltissimi e danno fino a 18 tomoli, ma quando è buona annata, anche 30. Mancano le vigne». Chi ricorda più la lanata, che è fatta di tre rotoli di lana? E’ sempre Vincenzo Padula che ne parla. Si coltivano ancora il grano, le fave e i piselli, ma sono gustosi anche i fichi d’india, e i cacciatori parlano del bosco delle cùmmere, il bel corbezzolo che emerge nella vasta macchia mediterranea. Leggiamo sempre il Padula, ripreso nella tesi di Domenica Odoguardi: «Le donne indossavano calze bianche e gonna nera e verde-oliva, il grembiule, che chiamiamo ancora sinale; un  fazzoletto legato dietro la nuca. Romana; camicia bianca di tela, merletti ai polsi, sopra la camicia il corpetto. Gli uomini portano scarpe le zampitte, come le ciocie della campagna romana, pantaloni di panno nero, lunghi; camicia con il ristagnino, cappello cilindrico o a cono».

Qui c’era una schiera di cantatori popolari; sentiamo canti d’amore, di Carnevale e della settimana santa. Cantano Antonio La Banca; Caterina e Antonietta Napoli; Carmela e Rocco Converti; Maria Maratea; Carmela La Ragione; Maria Antonia Vuodi; Pasquale Manera; Giuseppe Volpe, Leonardo Franco; Maria (Carolina) Fioravante; Francesca Paladino. Facciamo una escursione a piedi, per la campagna e fotografiamo i ruderi dei vecchi mulini ad acqua. «Qui si faceva anche la calce per le costruzioni, e le pietre di intaglio si trovavano in contrada Femina morta”. Per i prossimi mesi ci rivedremo in Amendolara e ad Oriolo.

Giuseppe Rizzo

 

Condividilo Subito
Subscribe
Notificami
guest

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments