Ma il fatto più leggendario è quello di San Giorgio che fermò la cavalleria francese, al grido di “pied’arm!”. Questo santo, che sconfisse il drago, è venerato anche per aver fatto cadere la pioggia, in un periodo di grande siccità, facendo arrabbiare i vicini di Amendolara, che avevano implorato invano il loro san Vincenzo.Un’altra leggenda l’ha ricordata Vincenzo Padula, quando scrive che in Oriolo c’era «il celebre pastore Scarano che minacciava di sciogliere e legare i lupi».
Il paese era difeso dalla cinta urbica e Oriolo faceva parte della diocesi di Anglona-Tursi. Oggi appartiene a quella di Cassano. Gli oriolesi non si offendono se qualcuno li chiama coppoloni: così vennero definiti nel manoscritto di Giorgio Toscano (1695), il quale fa la storia di Oriolo dal 1221 al finire del ‘600. Questo paese visse sotto il dominio dell’imperatore Federico II; nel 1552 divenne feudo dei Pignone (con Marcello presidente della Regia Camera della Sommaria), poi Pignone del Carretto. Del convento di S.Francesco d’Assisi sono rimasti solo i ruderi (che oggi stanno tornando alla luce), ma si ricordano anche quei monaci del 3° Ordine dei Claustrali. Uno scrittore parla della “grandiosità” della chiesa madre. Nel medioevo la chiesa era a due navate e forse risale al periodo normanno-svevo, anche se rimangono resti del Quattrocento come recitano le epigrafi dei resti del campanile. La chiesa è dedicata a S. Giorgio; vi troverete una statua in marmo bianco della Madonna col bambino della scuola del Gaggini datata 1581, che proviene dal convento dei Francescani, un altare ligneo barocco del ‘700 (recuperato dal prof. Toscani nel 1976), proveniente dai Cappuccini, un bassorilievo di scuola donatelliana, statue lignee del ‘700, una croce processionale e altri oggetti sacri.
Altri contadini raccontavano fatti di briganti: don Domenico Soria, sequestrato dai briganti Giovanni Labanca e Cuciniero (della banda di Antonio Franco) e portato in una grotta della foresta di Castroregio, e quel Francesco Buongiorno della banda Catalano. Buongiorno era stato preso dalla Forza pubblica che l’aveva arrestato e obbligato a fare da guida per scovare i briganti di Catalano; durante il viaggio chiese di fare un bisogno personale, ma vistosi sciolto nelle mani si mise a correre per un dirupo, veniva colpito a morte, ma salvò la banda Catalano indicando alla truppa una traccia diversa di quella che stava facendo. I cibi e la cucina tipica locali li descrivono gli stessi studenti nel libro. L’elenco è abbastanza lungo: sauzìzz’, prisùtt’, suprissàta, case, i iwatin (gelatina), i firzùw, uaganèll, rashkatìll al ragù e con formaggio, la fava shkantata, fava arrappàte. Fave c’a scorza, uicurd’icipull, i patàne e tante altre licurde, la frutta, dolci natalizi: crucittnfurnàte, i crisp e i taralli, e quelli pasquali: mìnnuwiatttturrate, a pittanghiuse ed altre pitte, tutte di ottimo sapore.Vincenzo Diego ha scritto un libro sull’ultimo Pignone del Carretto. Sul dialetto oriolese basta leggere le poesie di Giacinto Luzzi (ne ha parlato egregiamente il prof. Giorgio Delia) e di Peppe Muscetta. Ma Oronzo Accattato è un altro illustre scrittore e poeta. Oronzo ci racconta, con amara ironia, della situazione sociale della sua infanzia, quando non c’era ancora la rete fognante e si andava, in fila, in un costone della periferia, di rimpetto alle case.
Giuseppe Rizzo