Amendolara di una volta. Dalle mandorle alla transumanza. Le donne con il “sinàle” e la “ffàscina” contro il malocchio
Per la storia e per le tradizioni popolari di Amendolara dobbiamo essere grati a diversi personaggi della cultura locale: il medico umanista Vincenzo Laviola nei suoi libri ha documentato storia, archeologia, mondo del lavoro contadino a artigianale, palazzi signorili, feste religiose e altre tradizioni popolari, come il gioco delle stacce, la festa di San Giuseppe, il brigantaggio, e pure foto, con la descrizione dei mestieri e di altre attività ormai scomparse: chi ricorda più la ferratura dei buoi? Notizie storiche di Amendolara si trovano nei libri di Antonio Gerundino. Per quanto riguarda il dialetto, vedi la trascrizione delle avventure di Pinocchio in vernacolo amendolarese. Negli anni Cinquanta-Sessanta, Mario Blefari Melazzi ha scattato foto in bianco e nero; sono tutte di alto valore antropologico, perché anch’esse riguardano il lavoro contadino, la mietitura, il gioco del falcetto e altro. Nella casa-museo di Blefari sono ben collocati tutti gli oggetti e l’attrezzatura dei lavoratori dei campi. Per l’artigianato, bisogna dare atto anche al geologo Vincenzo Laschera, per aver raccolto e allestito un piccolo museo. Nel 1800, don Vincenzo Padula così descrive Amendolara: «Bel sito, in colle ridente, cinta da mura merlate e da burroni inespugnabili». Ma è ancora più esauriente l’architetto Maria Rita Acciardi: «Amendolara: pezzi di storia, frantumi di mito, leggende sacre e profane, racconti di santi e di eremiti, vite di eroi di tutti i giorni, storie di emigrazione e di disperati distacchi, di canti, suoni e balli popolari, fuochi della notte, immagini e profumi di mandorli in fiore, pianori di terra arsa e riarsa, calanchi bruciati, tratturi antichi, fiumare, boschi, pinete e mare”(in Alto Jonio calabrese di Leonardo Odoguardi, 1999).
Il nome del paese lo danno le mandorle. Il Padula scrive: «Se ne fanno in quantità e si vendono da 3 a 4 ducati il tomolo». Anche l’artista Antonio Sassone, emigrato in Argentina, si ispirava al suo paese natìo. La cantavano nelle loro poesie, anche i fratelli Sisci e Rocco Silvestri, recentemente scomparso. I Sisci cantavano la selvaggia bellezza e la quiete del bosco di Straface, con la sua vegetazione di “querce, cerri, pinoche, carpini”. Rocco Renne si interessò tra l’altro della transumanza dei pastori. E a proposito dei pastori, già il Padula diceva che provenivano quasi tutti dalla Basilicata, precisamente da San Severino Lucano (Pz), come la famiglia Vitale. A Straface si celebra, nel mese di settembre, la festa della Madonna delle Grazie: si balla, si suona e si canta. Un altro che scrisse e pubblicò notizie su Amendolara è il compianto Rocco Rago.
Gli amendolaresi hanno il nomignolo di mangia sarde, perché, in un periodo di siccità avevano messo una sarda in bocca a San Vincenzo. Un oriolese mi racconta il fatto della processione con la statua del santo, per scongiurare una dannosa siccità. C’è stata una contesa con San Giorgio di Oriolo, che sarebbe riuscito a far cadere la pioggia, e gli amendolaresi, nonostante la sarda salata, hanno maledetto la “malandata” buttando per terra il protettore San Vincenzo! (Nella foto sotto, il castello)
Pure in questo territorio ci sono i ruderi dei vecchi mulini ad acqua: uno è nella Valle di Straface; vicino al paese c’era il mulino della Lista, ma il più conosciuto resta il mulino di Donna Cicca, sulla strada di Oriolo. Le leggende più antiche le raccontano solo gli storici: il Banco di Amendolara o Secca di Amendolara, che alcuni vogliono che sia l’Isola di Ogigia. Poi, la Lagaria, i resti archeologici del VII-Vi sec. A. C. in contrada San Nicola, dove sono emersi corredi funebri, i pesi dei telai e i noti tesoretti. Girando per il vecchio centro storico è interessante guardare ciò che rimane del Castello normanno e l’ex Convento dei Domenicani. In quei vicoli stretti si pratica ‘U jùche d’i ppundìlle”; lo fanno durante i fucarazzi di aprile, nella festa di San Vincenzo Ferreri, Patrono di Amendolara. Anche gli emigranti amendolaresi delle Americhe e dal Nord Italia sono legatissimi a queste tradizioni. Belli pure quei portali ad arcata che ricordano l’Amendolara del Medioevo. Qualche anziano ci conferma un curioso detto raccolto dal Padula, sulla cappella dell’Annunziata (nella foto): «Era un tempietto sacro che si crede dedicato a Venere; qui, le ragazze vanno a pregare di notte: Madònna mèja d’a ‘Núzzejàta, awànne šchìtt’e wwànne che bbínede màròtàta (traduzione: Madonna mia dell’Annunziata, quest’anno nubile e l’anno prossimo sposata)». C’è ancora qualche donna che dice la ffàscina contro il malocchio degli invidiosi. L’abbigliamento femminile tipico è ormai scomparso, le donne indossavano la gonnella, u sinàle (grembiule, ndr) e la giacchetta; il Padula ricorda «vesti rosse, le zitelle col petto chiuso ed attillate; le maritate sporche, con poppe scoverte e nere, si lavano il solo Capodanno, però donne belle”. Nel 1983 sono stati salvati anche i canti popolari, grazie alle registrazioni del prof. Leonardo Alario, e sentiamo ancora la voce di Antonio Gallo, Rocco Tucci e di Vincenzo Ciminelli (detto Mago di Straface). I canti religiosi, specie quelli della Passione, sono varianti degli altri paesi, bella quella dedicata a Santu Rukku, ma ancora più simpatici, gli umoristici “Kki bbaj facenn’a nott (canto di scherno) e Cara Rosina.
Giuseppe Rizzo