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Una donna uccisa ogni 72 ore. Potremo mai dire di essere in un mondo giusto?

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di Federica Grisolia

Che la violenza sulle donne sia un dramma sociale è, ormai, tristemente noto. Del resto, i numeri hanno ormai raggiunto livelli d’allarme: ogni 72 ore in Italia una donna viene uccisa da una persona di sua conoscenza, solitamente il suo partner; ogni 15 minuti subisce una qualche forma di violenza; tre femminicidi su quattro avvengono in casa; il 63% degli stupri è commesso da un partner o ex partner. E oggi, 25 novembre, nella Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, fioccano le iniziative, dalle panchine rosse alle fiaccolate, dai flash-mob ai convegni, tante scarpette rosse, per ricordare ognuna di loro e sensibilizzare affinché questi dati subiscano un calo.

Un fenomeno universale che, spesso, trova profonde radici in cause culturali, improntate sul maschilismo, sull’idea di possesso e superiorità, fattori scatenanti di gelosia morbosa, atteggiamenti violenti e personalità psicopatiche. Accettare che la violenza sia un fattore culturale, radicato in una visione “deviata” tradizionalista dei ruoli di genere, significa promuovere un’inversione culturale che coinvolga uomini e donne, insieme per una buona educazione e per un’idea paritaria e rispettosa del prossimo.

Lea Garofalo

E’ fondamentale, dunque, partire dalle scuole, luoghi di crescita, relazione e socializzazione, oltre che di apprendimento e formazione. Ma anche di legalità e buone pratiche. Conoscenza e cultura contrastano, infatti, illegalità e violenza, temi strettamente collegati tra loro. Fino a quando le donne non potranno vivere libere dalla paura e dalla violenza potremo davvero dire di essere in un mondo civile e giusto?

E se risulta difficile pensare che di giustizia si può addirittura morire, il caso di Lea Garofalo, giovane vittima della ‘ndrangheta, originaria di Petilia Policastro (in provincia di Crotone) dimostra che ciò è tristemente possibile. Esattamente dieci anni fa, il 24 novembre 2009, Lea sparisce all’età di 35 anni, a Milano, dove si era recata con la figlia Denise. Le indagini accerteranno che quella fu anche la data del suo omicidio, il cui mandante viene riconosciuto nell’ex compagno, negli anni diventato esponente di rilevo della ‘ndrangheta a Milano. Prima ammessa in un programma di protezione che la porta, insieme alla figlia Denise, a Campobasso, e poi estromessa in quanto ritenuta collaboratrice non attendibile. 

La colpa di Lea è quella di non essersi sottomessa ad una vita regolata dai dettami delle famiglie ‘ndranghetiste, seppur cresciuta in un ambiente mafioso, alla ricerca di una vita normale, nella legalità. Decreta così, la sua condanna a morte. Uccisa perché ha collaborato con la giustizia ripudiando qualsiasi atteggiamento omertoso e rivelando retroscena di cui era stata testimone e di faide interne. Ma uccisa anche perché era donna. E come donna si era ribellata agli uomini del clan.

 

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