Il diario del Pollino. La semina nell’Alto Jonio. C’era una volta “u parìcchie”, simbolo civiltà contadina
Redazione Paese24.it
La transumanza non riguarda solo le mandrie dei bovini, delle pecore e delle capre; ci sono anche i cavalli; quelli che incontri nei vasti prati del Pollino sono bellissimi: quasi tutti rossi, con la stellina bianca sulla fronte. Il branco è formato da numerose giumente con i propri figli, e dallo stallone, che domina tutto il suo harem.
Tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre, si rientra in Marina. Quei pochi pastori e contadini che “resistono” in quella faticosa attività zootecnica hanno da affrontare un altro lavoro: la semina, che è ancora la risorsa basilare della piccola economia locale. I piselli e altri legumi sono stati già messi a dimora, specie lungo la costa jonica, da Trebisacce ad Amendolara, da Roseto a Montegiordano e Rocca Imperiale. Ma si pensa soprattutto al “pane quotidiano”; il vecchio seminatore delle nostre campagne, col sacco appeso sulla sinistra del petto, cospargeva a pugno pieno, la sementa; e subito dopo, metteva le mani sull’aratro, incitando i buoi, con questa invocazione: “sutt a nome di Dìo”. Anche oggi, l’orzo serve per la sfarinata ai maiali e alle galline, ma ci si ricavava anche del buon caffè. La biada è ancora usata come il miglior nutrimento per quei pochi asinelli e muli, rimasti come pezzi da museo.
Oggi, il grano e gli altri cereali si possono seminare col trattore, ma Antonia, appena tornato il marito dal Pollino, ci dice che per piantare le fave c’è bisogno del mulo o dei buoi “domiti”. “Domiti”: così si legge in certi atti dotali dei notai del ‘600-800. Una coppia di buoi domati, cioè addestrati all’aratura, si diceva “u parìcchie”. Ma i “paricchi” sono scomparsi da tempo, da quando è arrivato il trattore: lo scrittore Guido Ceronetti, che vive isolato nella sua campagna non ancora inquinata, sostiene il prodotto “biologico” e ricorda pure la vecchia aratura con i buoi. Non bisogna più indugiare su certe antiche nostalgie bucoliche di Esiodo e di Virgilio, ma dobbiamo ricordare che Pier Paolo Pasolini prevedeva già il rischio del consumismo capitalistico e i danni dell’industrialismo esagerato, rimpiangendo la “genuinità contadina”.
I buoi per arare non li “doma” più nessuno, perché non si può ributtare l’ uso razionale del trattore, della mietitrice e della trebbiatrice meccanica, e Vincenzo, che non è un nostalgico della cosiddetta “civiltà contadina”, ha addestrato un paio di vacche e ci arrangia la semina delle sue fave. Le fave si piantano in ottobre, nascono dopo 40 giorni e maturano tra la fine di aprile e gli inizi di maggio. Occorrono tre persone per la semina di questo pregiato legume: il gualano (il conduttore dei buoi) che traccia il solco; dietro i buoi, segue una donna che butta nel solco due o tre baccelli di fava secca, e ancora dietro di lei, un ragazzo che copre le fave con una pizzicata di letame, facendo pure a meno del concime chimico; ecco la vera semina biologica.
Ma io ho visto la contadina Isabella che arava con i suoi buoi; abbiamo fatto recuperare un’audiocassetta della trasmissione AZ della RAI nazionale degli anni ‘60, dove Angela è stata filmata pure alla guida dei buoi con l’aratro; perché il marito faceva l’emigrante in Svizzera. Comunque, le fave verdi (i favazz) si possono mangiare a stufato e a minestrone, ma con la pasta sono pure buone. Sono ancora più squisiti i “favazzi” verdi, accompagnati col “vucculàro”, col pane casereccio e con un bel bicchiere di vino locale. E poi, le fave secche, messe a cuocere nella pignatta, con finocchio e cotenna di maiale, sono ancora più ricercate. Le casalinghe più aggiornate ci fanno anche dell’ottimo purè. Credo che sia ancora interessante conoscere i cicli del lavoro contadino: il pascolo e la transumanza nel Pollino, la semina, la raccolta della “benedizione di Dio”: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta. . .”, cantava l’umile ma grande San Francesco. (le foto di repertorio storico-locale sono di Giuseppe Rizzo)